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Costruire saperi utili all’ambiente

E’ uscito da qualche settimana “Processo edilizio & sostenibilità ambientale. Comunicare con la didattica”, un volume di Adriana Scarlet Sferra dedicato alla sfida dell’innovazione low carbon nel comparto delle costruzioni (Franco Angeli, 265 pagine 29 euro). L’autrice è docente di Tecnologia dell’architettura alla Sapienza Università di Roma, segue con passione e competenza il dibattito sull’emergenza climatica e cerca di condividere con i propri studenti questa sua sensibilità orientandone lo sguardo verso la progettazione responsabile, la scelta di materiali innovativi e a basso impatto, la capacità di rigenerare i luoghi nel rispetto del suolo. Più in generale, verso la grande sfida che abbiamo davanti, quella di abbattere le emissioni di carbonio ed evolverci verso una nuova forma di benessere.

Ho avuto il sincero onore di scrivere la prefazione e mi è sembrato utile pubblicarla anche qui pensando agli studenti che seguono il mio corso di Scrittura giornalistica al Dipartimento di Lettere dell’Università di Cassino: un gruppo molto motivato e con ottimi prerequisiti, insieme al quale sto cercando di coltivare un’idea di giornalismo adeguato alle sfide dei nostri tempi, capace cioè d’individuare nei fatti che riguardano l’ambiente elementi nuovi di notiziabilità, di raccontare con efficienza le storie, di conversare con il pubblico in un’ottica di formazione.

Ringrazio di cuore Adriana per la fiducia che mi ha dato e dedico questo mio intervento, nel quale ho cercato di riflettere su come si possa “costruire” un sapere utile all’ambiente, proprio alle studentesse e agli studenti dei nostri corsi. Quasi fosse un gemellaggio fra questi due gruppi perché guardino ciascuno sul proprio terreno verso la tutela della casa comune, la valorizzazione delle risorse naturali, gli stili di vita virtuosi e attenti ai bisogni del pianeta. Buona lettura ;-)

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di Marco Fratoddi

Le prime scritture cuneiformi, come sappiamo, risalgono all’incirca al 3.500 avanti Cristo. Ma l’attitudine della nostra specie a condividere la conoscenza, lo spiega egregiamente Michael Tomasello nei suoi studi da antropologo evoluzionista, risale a parecchio tempo addietro: l’approccio cooperativo della comunicazione umana, intesa come terreno educativo intenzionale, determina l’identità sociale e coincide sostanzialmente con l’avvento dell’Homo sapiens. Facciamo due conti: dalla prima gestualità deittica dei primati superiori al concepimento della parola trascorrono (al saldo delle diverse teorie in questo campo) alcune centinaia di migliaia di anni, da questa alle prime attestazioni su supporto fisico in Mesopotamia, passando per le grandi tradizioni orali del mondo antico, meno di duecentomila. La società umana si organizza, lo confermano i reperti archeologici negli insediamenti prototipici nel Vicino Oriente. Parallelamente procede la progettazione linguistica: uno scarto d’innovazione sarebbe arrivato con la messa a punto dell’alfabeto greco, vera e propria tecnologia della parola, quando mancano meno di otto secoli all’anno zero. Sembra un tempo lontano da quello attuale in cui imperversano i touch screen (ma le interfacce immateriali di “Minority report” sono dietro l’angolo), le nuvole di dati o le reti sociali, croce e delizia della tarda modernità. In realtà secondo una prospettiva storica è vicinissimo. Anche perché il ritmo degli avanzamenti in campo mediale, transitando dalle tavolette d’argilla al papiro e poi alla pergamena, man mano che si perfeziona il sistema dei segni e l’usabilità dei materiali, accelera in maniera esponenziale: in Europa avremmo trascritto poemi, saggi e testi religiosi per circa cinquemila anni prima di entrare nella cosiddetta galassia Gutenberg grazie all’invenzione, dovuta per l’appunto all’orafo di Magonza, della stampa a caratteri mobili. Pensateci: duecentomila anni fra la civiltà orale e quella chirografica, cinquemila fra quest’ultima e quella tipografica che celebra la centralità della carta, da cui ancora oggi non riusciamo ad affrancarci. Il tempo dell’innovazione accelera quanto più circolano le conoscenze: fra le edizioni cinquecentine d’argomento storico, filosofico e letterario che permisero la prima, vera alfabetizzazione laica e la telegrafia elettrica contiamo tre secoli, meno di sessant’anni fra questa e la meravigliosa intuizione di Guglielmo Marconi che svincolò finalmente la trasmissione del messaggio dal canale fisico, il passo verso la condivisione wireless della parola e dell’immagine sarebbe stato breve.

Ora però fermiamoci. Torniamo nel presente, entriamo nell’epoca in cui ci proietta Adriana Sferra con questa edizione rivista e ampliata del suo Processo edilizio & sostenibilità ambientale. Comunicare con la didattica. Varchiamo cioè la soglia dell’antropocene, per riprendere la definizione resa nota all’inizio del millennio dal Nobel per la chimica Paul Crutzen, proprio a rappresentare l’inedita capacità dell’uomo di segnare indelebilmente il destino della biosfera, di alterare gli equilibri del Pianeta. In qualche modo di “scrivere” sull’organismo stesso di cui fa parte. È un’epoca di grande responsabilità, quella che stiamo attraversando. Vi giungiamo in un momento di estrema maturazione della nostra capacità di comunicare su scala globale, grazie alla dimensione ubiquitaria delle reti e all’ibridazione dei media che permette, anche ai neofiti, di produrre testi caratterizzati da forte immediatezza. Mentre la crisi del clima, lo ricorda a più riprese l’autrice del volume, ci pone difronte a un bivio senza precedenti: il tenore di CO2 ha superato ormai da un paio d’anni la soglia critica delle 400 parti per milione (ppm), se una svolta dev’esserci nella nostra capacità di stare al mondo questa riguarda in primis l’evoluzione verso sistemi produttivi, abitativi e di mobilità a basse emissioni di carbonio. Molti indicatori confermano che la partita è aperta: nel 2016 le fonti rinnovabili (idroelettrico escluso) secondo l’Unep hanno raggiunto l’11,3% dell’elettricità prodotta su scala globale con una crescita dell’1% rispetto all’anno precedente. Il Pil, per quello che significa, sembra essersi finalmente disaccoppiato dall’escalation delle emissioni: il mercato è in ripresa ma il biossido di carbonio in atmosfera secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia si attesta sulle 32,1 gigatonnellate proprio in virtù dell’efficientamento e della proliferazione delle rinnovabili soprattutto negli Usa, in Cina e in Europa. Una partita aperta, appunto. Ma non vinta perché i segnali di segno contrario sono molti: basti pensare alle politiche antiambientaliste di Donald Trump, un fatto nuovo e per certi aspetti imprevedibile rispetto a quando uscì la precedente edizione di questo volume (era il 2015), che rischiano d’incidere almeno per i prossimi quattro anni su scala internazionale. O al consumo ancora spaventoso di materia prima e di suolo, altra ferita inferta al Pianeta, che invita anche l’edilizia a volgere lo sguardo verso la ristrutturazione e l’economia circolare. Bisogna inoltre tener conto dell’inerzia di questi fenomeni, vale a dire delle conseguenze sul medio e lungo periodo che comunque seguiranno all’anomala immissione di gas-serra richiedendo ai sistemi umani, in primo luogo alle città, una notevole capacità di adattamento.

La corsa, insomma, è contro il tempo e la scadenza, semmai ce ne fosse bisogno, si presenta alle nostre orecchie come il tictac del coccodrillo che ogni tanto minaccia Capitan Uncino nella fiaba di Peter Pan: la natura con le sue anomalie, qualche volta sottili, qualche altra estreme come un morso, ci ricorda che non possiamo sottrarci al suo richiamo. Tanto da richiedere con urgenza una grande narrazione globale che accompagni la piena applicazione dell’Accordo di Parigi sul contenimento della temperatura entro questo secolo al di sotto di un grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali, qualcosa di simile ad un Gilgamesh contemporaneo che spieghi la portata di questo obiettivo. Qui sta il nodo strategico, la ragion d’essere della comunicazione contemporanea in ambito giornalistico, divulgativo, sociale: alla civiltà dei media elettrici, mentre trascorreva il Novecento, è seguita quella digitale con un’ulteriore accelerazione del battito, fra i primi computer e il web sono passati vent’anni, fra questo e il social network meno di dieci, oggi comprendiamo a stento come si evolva la bolla dei personal media anche a causa della compulsione al consumo che pure imperversa in questo settore. Ma sappiamo che alla comunicazione di massa si è sostituita ormai una logica nuova, quella della conversazione fra pari con l’imprevedibilità che comporta. Abbiamo acquisito, insomma, con il nuovo millennio una straordinaria capacità di condividere contenuti, ora dobbiamo spendere questa competenza in una direzione utile a Gaia: mettere in campo un discorso pubblico adeguato alla sfida che abbiamo difronte e la responsabilità di questo processo pesa innanzitutto sui narratori di professione, a partire dai giornalisti. Le contraddizioni lungo questo cammino sono evidenti, ne esplicitiamo soltanto una: il 10% della popolazione più ricca del pianeta, denunciava nel 2015 il rapporto Disuguaglianza climatica di Oxfam, produce il 50% delle emissioni di CO2 mentre dalla metà più povera, circa 3,5 miliardi di persone, deriva solo il 10%. Proprio su quest’ultima pesano le maggiori conseguenze dello sconvolgimento climatico visto che, secondo il rapporto Migrazioni e cambiamento climatico (presentato sempre due anni fa da Cespi, Focsiv e Wwf) fra il 2008 e il 2014 oltre 157 milioni di persone si sono dovute spostare a causa di tempeste e alluvioni dalle aree più povere del pianeta, quelle a bassa latitudine. Con un’aggravante che pochi considerano: le “grandi potenze” dell’informazione globale, vale a dire Ap, Upi, Reuters e Afp, che gestiscono l’80% delle notizie, si trovano altrove. Risiedono fra Usa, Gran Bretagna e Francia, nel cuore del primo mondo energivoro, assai lontano dai luoghi che soffrono di più, con le conseguenze sulla prospetticità delle cronache che possiamo immaginare.

C’è una correzione etica, insomma, da apportare perché il mainstream si adegui agli obiettivi di comunicazione che impone la questione ambientale. La progressione dal basso delle pratiche virtuose e delle conoscenze è innegabile se il biologico cresce, il car sharing a flusso libero spopola, le rinnovabili guadagnano terreno, sui social le persone si scambiano informazioni, si mobilitano per l’ambiente o alimentano gruppi di acquisto. Questa vera e propria rivoluzione però potrebbe non compiersi in tempo rispetto all’escalation della temperatura né resistere alle spinte della conservazione: serve una certificazione della politica, occorre che la “langue” delle grandi scelte strategiche, secondo una prospettiva saussuriana, si adegui alla “parole” delle pratiche in atto al livello dei parlanti, che la grammatica della governance stabilizzi e potenzi le pratiche d’innovazione esercitate da avanguardie sempre più corpose.

Opere di saggistica come questa ci aiutano nel seminare le ragioni della metamorfosi in atto, lo rendono credibile e anche avvincente per il futuro di un settore importante come l’edilizia. Fa bene però l’autrice a richiedere il sostegno di quanti agiscono sul terreno della comunicazione, la spinta dei media deve stare al passo con questi scenari, assumere un significato educativo, disancorarsi dai criteri ordinari di notiziabilità che prediligono le catastrofi o il racconto del potere, puntando sul racconto delle soluzioni (anche quelle possono fare notizia) perché queste si moltiplichino. Serve una scrittura capace di incidere, come quella delle origini: lasciare un segno nelle mentalità, anziché nell’argilla, partecipare al cambiamento anziché essere testimoni di quanto accade. Sulla scorta della lettura che stiamo per cominciare sarà più facile capire quale via sta prendendo la storia e come sentirsi a modo nostro costruttori di sapere, oltre che artefici di manufatti destinati a dare nuove forme e maggiore efficienza alle nostre città.