L’esercizio della cittadinanza passa anche attraverso la zappa. È la lezione che arriva dalle esperienze, sempre più numerose, di adozione del territorio a fini agricoli da parte di quanti scelgono questo tipo di attività – sia insieme ad associazioni e comitati, sia all’interno di progetti lanciati dagli enti locali – per cercare là sotto, rovesciando le zolle, una risposta a bisogni di molteplice natura. Perché dietro il movimento degli orti urbani non c’è soltanto il desiderio, pienamente condivisibile, di risolvere attraverso l’autoproduzione a filiera corta il problema dell’approvvigionamento. C’è un retroterra più profondo, che chiama in causa la morfologia delle comunità locali nella tarda modernità, il disagio esistenziale di chi abita nella metropoli contemporanea.
Valgano alcune cifre per inquadrare un fenomeno che ricolloca nell’epoca della grande crisi i Victory garden che durante la seconda guerra mondiale proliferavano su entrambi i fronti: a livello globale, secondo le Nazioni Unite, sono 800 milioni gli urban farmer che operano in contesti e con finalità assai diverse fra loro.
In Italia gli agricoltori di città, sulla base di una ricerca realizzata lo scorso anno da Nomisma, sarebbero 2 milioni e 700mila (cifra che sale a 4 milioni e mezzo secondo la Confederazione italiana agricoltori). Ma ciò che fa riflettere sono soprattutto le motivazioni che spingono impiegati ed operai, studenti e pensionati, commercianti, insegnanti e liberi imprenditori, con una certa predominanza nel centro-nord, ad imbracciare pala e rastrello: il 63%, sempre secondo Nomisma, sceglierebbe quest’attività per sentirsi in armonia con la natura, il 60% per il desiderio di consumare prodotti genuini, il 38% per il potere rilassante dell’orticoltura. Solo una parte residua (il 18%) per i vantaggi economici che ne derivano. Come dire: le finalità utilitaristiche, almeno in un paese ad economia avanzata come il nostro, finiscono in secondo piano. Si evidenzia piuttosto l’urgenza dei singoli di ricongiungersi con la concatenazione dei tempi biologici oscurati dall’artificio della grande distribuzione alimentare. Un risvolto che conferma lo spaesamento identitario della nostra epoca in particolare nei grandi centri urbani, dove l’individuo (il tema è noto almeno dai tempi di Georg Simmel) cerca di riconquistare uno spazio per il sé e per le relazioni interpersonali opponendosi all’annichilimento provocato dalle grandi cubature.
La pratica degli orti, secondo la logica della “metastasi positiva” introdotta da Oriol Bohigas, diventa perciò innanzitutto perimetrazione di uno spazio pubblico (con l’accezione che a questo termine dà Mario Spada, vale a dire di uno spazio per la sostenibilità sociale), vera e propria delimitazione di unframe con tanto di siepi, solchi e recinzioni al cui interno ciascuno possa mettere radici e rigenerare la polis. Lo spiegava, fra gli altri, l’antropologa Alessandra Olivi, ricercatrice italiana presso l’Università di Siviglia, su La Nuova Ecologia di aprile, quando Legambiente ha organizzato “Orti in festa”, la prima giornata nazionale dedicata a queste reti: «L’orto dice molto su come le persone abbiano ancora bisogno di vivere collettivamente la città. È una misura per dire basta alla crescente urbanizzazione, alla cementificazione ma soprattutto alla privatizzazione dei luoghi pubblici e ad una forma di uso degli spazi comuni imposta e prestabilita».
Le narrazioni – e per certi aspetti le retoriche – intorno agli orti urbani d’altro canto sono molteplici e confermano la trasversalità mediatica, oltre che sociale, di quest’area dell’attivismo contemporaneo. Nel main-stream ad esempio l’argomento ha fatto breccia quattro anni fa, quando Michelle Obama ha lanciato la sua crociata a favore dell’alimentazione salutista promuovendo (e coltivando insieme ai familiari) un orto all’interno della Casa Bianca. Il passaggio simbolico è evidente: fra le prerogative dell’upper class, accanto alla cura del giardino, cornice rituale che “eleva” lo spirito sulla falsariga dell’hortus conclusus di derivazione biblica e poi medievale, si afferma adesso quella più “democratica” dell’agricoltura fai-da-te che premia la dimensione terrena e la cura del corpo. Sul versante opposto gli orti rappresentano una metafora di liberazione delle classi subalterne, una proposta dal profilo quasi antagonistico che punta a riscrivere le regole della sovranità alimentare. Sono quei “cittadini del cibo”, come li definisce Franca Roiatti nel suo La rivoluzione della lattuga (Egea, 2011) che si battono per un diverso modello produttivo trovando sul web e in particolare nel social network (dove proliferano i gruppi che condividono strumenti e competenze) il proprio medium vocazionale.
Ma qual è il ruolo degli enti locali dentro questo arcipelago? Le azioni a sostegno dei community garden, attraverso l’approvazione di regolamenti e l’assegnazione diretta di spazi incolti, sono molte anche in Italia e s’ispirano a sperimentazioni che durante gli ultimi anni si sono radicate nei cinque continenti: su www.growtheplanet.com, tra le fonti italiane più accreditate, le storie di successo non mancano. Eppure limitarsi a facilitare l’attivismo urbano, nell’ottica del welfare collaborativo e della sussidiarietà, non basta. La sfida degli orti è più ambiziosa e avanza un’ipotesi di città con la quale gli amministratori sono chiamati a misurarsi: una città nella quale si va oltre la separazione cartesiana fra natura e costruzione umana, dove si arresta il consumo di suolo e s’impiantano cluster di rigenerazione che restituiscano spazi alla socialità. È questa idea di città, resiliente ed omeostatica, capace perciò di adattarsi più efficacemente al cambiamento climatico, che sta maturando all’ombra dei caseggiati ma anche sui balconi e persino sui tetti, un processo d’innovazione dal basso che si colloca a pieno titolo nel solco della smart city e che allude ad una più generale proposta di efficientamento centrata sulla mobilità low carbon, sull’abbattimento dei rifiuti e sulla riqualificazione energetica delle abitazioni.
(L’intervento è stato pubblicato su http://saperi.forumpa.it/ il 2 maggio 2013)